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quaderno edsNon cosa ho veduto, ma come l'ho veduto.
Ho veduto ogni cosa: adesso, quindi, non si tratta di quello che ho veduto, ma di come l'ho veduto.
Anton Cechov, Senza trama e senza finale, 99 consigli di scrittura, Minimum Fax

Ancora sui sensi, stavolta parliamo della vista. Prima il mio racconto e poi il bando

Lo sai che di tutti questi sensi e controsensi ne abbiamo fatto un libro? è ancora lì: Quaderno degli EDS: i sensi

Essere nutria, oggi

L'ho detto più di qualche volta, le belle cose finiscono. Anche le brutte. Le cose finiscono sempre, prima o poi, belle o brutte, che tu lo voglia o no.
Stamattina ho preso la bici e sono andata per nutrie. Era passato tanto tempo dall'ultima volta che non mi ricordo nemmeno quando è stato. Potrei andare a sfogliarmi all'indietro il blog ma anche no, fa niente. Dopo tutta questa pioggia mi sembra di essere tornata da un viaggio, voglio celebrare l'estate perché certe cose, anche se finiscono, poi ricominciano e una di queste è proprio l'estate. Che bei pensierini saggi da quinta elementare che secerno. Il fatto è che non ho voglia di scrivere l'EDS. Ecco. L'ho detto. Ne ho cominciati tre o quattro su trenta buone idee che mi erano venute, sempre nei momenti meno opportuni, ma poi ho mollato lì. Non è perché è difficile, al contrario le sfide mi intrigano, son capace di tutto, delle volte. Trascino, organizzo, propongo e metto in fila per due. E poi quando si tratta di andare, quando finalmente è arrivata l'ora il più delle volte mi passa la voglia, anche se magari mi sforzo un po' e mi convinco da sola, su dai, vedrai che poi, quando sei lì.
Non l'avresti mai detto, eh. Sembro così sicura. No, dai, sotto sotto si capisce. Se guardi bene la filigrana si nota.
E insomma son partita alle sette e mezza. Prima che faccia caldo, ho pensato. E prima che si riempia di gente, mi piace avere il mio spazio, pedalare senza dover fare la gimcana tra cani, passeggini e passanti generici.
I prati del parco della Martesana sono di un verde abbacinante, rasati corti, l'erba è folta e liscia come una moquette di lusso, così non li avevo mai visti. Con tutta quella pioggia. Ma anche ci dev'essere stato un bel lavoro di manutenzione, non si taglia mica da sola, le foglie secche non si raccolgono da sole, le siepi non si autopotano, ci vogliono uomini e mezzi, si vede che il comune non li ha lesinati.
Quanti verdi, le piante sugli argini lucide e scure, le siepi hanno ancora quelle foglie tenerelle, tremano alla brezza del mattino. Si faranno più fitte e sarà l'estate, ma adesso ancora i profumi dei gelsomini e dei glicini mi si fanno incontro, l'aria è fresca e la luce bianca.
Arrivo presto al ponte, passo sotto e intanto guardo l'acqua, il livello non è alto come mi aspettavo, avranno tenuto aperte le chiuse. Il colore è marroncino fangoso ma il fondo si vede, le rive sono pulite. Paperette, poche. Una signora mi viene incontro e mi scampanella, guarda avanti! mi dice. Evabbè, l'ho vista. Con la coda dell'occhio. Cosa cerco lo sappiamo.
Mi fermo nel solito posto, parcheggio e guardo.
Niente è più come prima.
Il tronco tagliato che sporgeva non c'è più, la penisola con la spiaggietta e la tana dove la nutria faceva toeletta sono sparite.
È rimasta solo la tartaruga, su un altro pezzo di legno più piccolo, tirato in secca sul sottobosco morto.
Hanno ripulito via tutto, hanno spianato, messo in sicurezza la riva, si capisce.
Niente nutrie. Paperette poche e svogliate.
Mi viene un moto di stizza.
Mi avvicino al parapetto. Non c'è più nessuno qui?
Eh, lo so. Le nutrie non piacciono a tutti. C'è chi ne ha paura, molti sono convinti che siano carnivore, che mangino i pulcini. Chi le prende per pantegane, con quella coda lunga e sottile. Chi non le vede nemmeno. Chi abita da queste parti magari le odia proprio, chissà se sono disposte a entrare nelle cantine in cerca di cibo, di certo a tu per tu potrebbero essere un incontro non del tutto rassicurante.
Sporgo il labbro in una smorfia di dispiacere. Nutria, amica mia! Dove sei? Non mi vuoi più?
Risalgo e vado avanti piano, manca poco a Crescenzago e le vedo.
Si sono spostate, hanno traslocato. Ce ne sono tre, belle grasse, che nuotano avanti e indietro. Mi avvicino e si avvicinano anche loro, vengono a guardarmi da sotto in su. Hanno tutte una macchietta bianca sul muso, non capisco se è un riflesso o un segno di famiglia.
Certo che dev'essere stata dura per loro quando gli addetti del comune sono venuti a sloggiarle da quell'oasi bellissima. Chissà che spavento. Avranno dovuto scappare via e poi tornare quando tutto era calmo, ma solo per vedere che niente era più come prima.
Il comune deve difendere le sue istituzioni, anche loro hanno le sue belle ragioni. Non si può lasciare andare alla natura, la Martesana è una manufatto, un canale frutto della civilizzazione e costa una bella fatica mantenerlo a posto, ci vuole niente perché ritorni selvaggio. Il tronco caduto era una perturbazione dell'ordine artificiale che ci siamo dati.
Eh, lo so. Però era divertente. Rispondeva a un'esigenza. Quale non lo so, forse era solo un'esigenza di bellezza.
Solo io lo vedevo?
Forse anche la Nutria lo vedeva. Le piaceva, su questo sono sicura. Ma ha dovuto rientrare nei ranghi. Dopotutto l'aveva scelto lei di occupare quello spazio e sottostare a una specie di regolamentazione. Se non le andava bene poteva pure migrare in qualche campo aperto, allo sbaraglio. Ma come fare, se la sola idea di allontanarsi dalle sue cose note le dà una vertigine di terrore. Il cespuglio di ortiche, il rumore del treno in lontananza, il campanile che suona le ore sono i confini ideali di un perimetro da mai superare. Per non parlare delle sue sorelle che hanno la tana in condominio. La libertà è solo un sogno di paura, latrati di cani che si avvicinano e zappe, motoseghe, trattori.
Io dovrei tenere per il comune, dopotutto sono della stessa razza. Fanno le cose con i soldi delle mie tasse e dovrei esserne contenta. Se tagliano l'erba, se puliscono i vialetti, se portano via le foglie secche allora bene, se mettono a posto il tronco caduto - che pure è una perturbazione dell'ordine generale - allora mi sembra di dover rinunciare a qualcosa di mio.
Non c'è niente di mio, è inutile che mi illudo. Mi posso esser divertita qualche volta, mi sono presa il mio piacere con la nutria ma tutto questo non appartiene a me. Me lo devo ricordare. Non è che il proprietario sia venuto mai a reclamarne il titolo di appartenenza, sia chiaro. Mica lo sa che me la spassavo. È stata la nutria stessa che ha dovuto fare la sua scelta, abbandonare il tronco caduto e occupare il posto che le istituzioni hanno deciso per lei, pena la fuga allo sbaraglio, la paura e forse il pericolo mortale.
E poi che ne so. Che ne so io della vita che fa la nutria tutti i giorni. La vedo così raramente. In acqua fa la spavalda e si pavoneggia, sembra quasi che giochi. No, sono sicura che gioca. Ma la giornata è lunga e la notte ancora di più, la notte d'inverno non finisce mai. Dovrà procurarsi il cibo per sé e per i cuccioli, se ne ha. Dovrà scavare la tana oppure rinforzare i contrafforti, sfuggire ai predatori. Campare insomma.
Che ne so io di come campa lei, la vedo solo nei suoi momenti migliori.
Lei pure non sa molto di me, non le importa, credo. Forse quando mi vede sporgermi sul parapetto mi riconosce, viene lì e mi saluta a modo suo, mi guarda e pensa a che vita grama devono fare gli umani, sempre fuori dall'acqua.
Vai a sapere.

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Il bando parte da qui:

Non cosa ho veduto, ma come l'ho veduto.
Ho veduto ogni cosa: adesso, quindi, non si tratta di quello che ho veduto, ma di come l'ho veduto.
Anton Cechov, Senza trama e senza finale, 99 consigli di scrittura, Minimum Fax

 

Ho citato questa frasetta ennemila volte, appena ne ho avuto l'occasione: con una sintesi straordinaria riassume tutte le qualità di un narratore. Per poter descrivere bisogna prima guardare, ma guardare non basta perché bisogna anche vedere. Come l'ho veduto vuol dire che ci sono diversi modo di vedere le cose, nessuno che sia necessariamente quello giusto ma tutti giustificati.
Ho sempre trovato affascinante che di ogni fatto possano esserci diverse interpretazioni, diverse versioni a seconda del punto di vista: già questo è il nocciolo di una storia, sottintende un conflitto, crea nel lettore curiosità e fa venire voglia di leggere: chi ha torto? Chi mente e chi dice la verità? Chi ha visto giusto e chi ha sbagliato? E se avessero tutti ragione?
Ci sono poi molte tecniche per mettere in scena questo modo diverso di vedere le cose: dialoghi in cui i personaggi si confrontano direttamente, oppure attraverso un terzo che raccoglie separatamente le testimonianze, ma anche due monologhi separati in cui ciascuno racconta la propria versione, oppure il narratore onnisciente che passando dall'uno all'altro rende conto delle varie facce della verità, triangoli amorosi e poligoni sfaccettati. Il cinema e la letteratura hanno affrontato più volte questo tema, lasciando spesso aperta la soluzione: non starò qui a portare altri esempi.

Quello che ti chiedo di fare è scrivere un raccontino con una storia che può essere vista in modo molto diverso a seconda del personaggio su cui è puntato il focus, oppure due raccontini staccati della stessa storia che tengano conto della differenza di chi guarda.

Il punto di vista può anche essere metaforico o simbolico, più bello però sarebbe se potesse in qualche modo comprendere anche il senso della vista in quanto tale.
Non aggiungo altri paletti perché questa volta la mia richiesta è già abbastanza difficile così, ma il livello dei partecipanti è diventato sempre più alto, dunque osiamo!

Che poi, a conti fatti, si tratta di raccontare la storia di Re Salomone, o almeno la prima parte di questa storia, teniamo fuori il lato parabolico che vuole insinuare che la rinuncia è il modo giusto di amare: sulle questioni etiche per stavolta passo, il sacrificio di sé lo lascio volentieri ai mistici, io sono tutta carne. In carne, vabbè, ho splafonato.

Concentriamoci sui presupposti, immaginiamoci la storia che viene raccontata al Re, ridotta all'osso: due donne dormono insieme con i loro figli neonati, alla mattina uno dei due bambini è morto, entrambe sostengono che quello sopravvissuto è il proprio e quello morto dell'altra. A quell'epoca il test del DNA non era in vendita su internet, a dire il vero anche le connessioni non erano facilissime, i bambini vestivano tutti nudi uguali, non c'erano testimoni, forse le due donne appartenevano allo stesso marito, i bambini avevano la stessa età e si assomigliavano, anzi erano come gemelli, non avevano nemmeno un piccolo neo sul mignolino del piede che li distinguesse.
Di chi è veramente figlio il bambino superstite? Di chi è la colpa della morte dell'altro? E le due donne sono in buona fede? Nessuna delle due, entrambe o solo una delle due?
Immaginati la scena alla mattina, appena la luce si insinua dentro la tenda, perché sì, erano nomadi accampati da qualche parte per badar dietro agli animali. C'è una grande stuoia e sulla stuoia un mucchio di coperte e pellicce, e sotto una famiglia, mogli e bambini di varie età si stringono gli uni agli altri per tenersi caldi.
Il padre sta da solo in un altro angolo della tenda. È già sveglio, pensa che il freddo è arrivato troppo presto, il foraggio comincia a mancare, le bestie sono magre. Dovranno spostarsi per cercane nuovi pascoli.
Il mucchietto delle mogli si muove, non sono ancora tutti svegli quando si alza un grido. Viene scoperto il bambino morto.

Ecco, da qui può cominciare l'eds. Cosa fanno due che vogliono avere ragione a tutti i costi? E da quello che fanno si può capire come si sono svolti i fatti? Chi sono e come sono arrivati fino a quel punto può essere ricavato dal momento cruciale, può essere sottinteso, alluso, ricavato dai dialoghi o dai particolari della scena? Cosa vedi?

Il luogo e il tempo e le persone poi possono essere del tutto diverse, guarda per esempio come l'ha sbrogliata il nostro Raymond.

La mattina presto il tempo era cambiato e la neve stava sciogliendosi in acqua sporca. Scorreva giù a rivoli dalla piccola finestra all'altezza della spalla che dava sul giardino dietro la casa. Fuori le macchine schizzavano fango sulla strada, dove stava diventando buio. Ma stava diventando buio anche in casa.
Lui era in camera da letto che cacciava i vestiti in valigia, quando lei comparve sulla porta.
Sono contenta che tu te ne vada! Sono contenta che tu te ne vada! ha detto. Mi senti?
Lui continuò a mettere la sua roba in valigia.
Figlio di puttana! Sapessi come sono contenta che tu te ne vada! Cominciò a piangere. Non riesci nemmeno a guardarmi in faccia, eh?
Poi lei vide la fotografia del bambino sul letto e la prese in mano.
Lui la guardò e lei si asciugò gli occhi e ricambiò lo sguardo prima di voltarsi per tornare in soggiorno.
Ridammela, disse lui.
Prendi la tua roba e vattene, disse lei.
Lui non rispose. Chiuse la valigia, s'infilò il cappotto, e diede un'occhiata alla camera prima di spegnere la luce. Poi andò in soggiorno.
Lei era in piedi sulla porta della piccola cucina, con il neonato in braccio.
Voglio il bambino, disse lui.
Sei impazzito?
No, ma voglio il bambino. Manderò qualcuno a prendere la sua roba.
Tu non lo tocchi, il bambino, disse lei.
Il piccolo cominciò a piangere e lei gli liberò la testa dalla coperta.
Oh, oh, disse guardando il bambino.
Le si avvicinò.
Per amor di Dio! disse lei. Indietreggiò di un passo in cucina.
Voglio il bambino.
Fuori di qui!
Lei si rintanò con il bambino in un angolo dietro i fornelli e agguantò il bambino.
Lascialo andare, le disse.
No, disse lei. Fai male al bambino, disse.
Non gli faccio male al bambino, disse lui.
Non entrava luce dalla finestra della cucina. Nella semioscurità lui con una mano cercò di allentare la stretta di lei e con l'altra afferrò per un braccio, sotto la spalla, il bambino che strillava.
Lei sentì che le dita le cedevano. Sentì che il bambino si allontanava da lei.
No! urlò nel momento in cui fu costretta a mollare la presa.
Lo avrebbe tenuto lei, il bambino. Gli afferrò l'altro braccio. Lo prese per il polso e si buttò indietro.
Ma lui non mollò. Sentì il bambino scivolargli via dalle mani e tirò a tutta forza.
In questo modo la questione fu risolta.

Raymond Carver, Meccanica popolare. (È il racconto intero, brevissimo, fulminante. L'ho trovato sul web, viene da "Di cosa parliamo quando parliamo d'amore" ma non metto la mano sul fuoco sulla trascrizione)

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