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Una piccola forma di immortalità

Mia nonna quando è morta aveva gli anni che ho io adesso. Mi fa impressione pensare che tra poco sarò più vecchia di mia nonna, eppure è un fatto della vita.
Ho pensato molto a lei durante le operazioni del mio secondo trasloco - e due mi sono sembrati troppi - dicono che mia nonna ne abbia fatti quaranta in tutto, se è vero quello che si tramanda e se non era un’esagerazione di mia mamma: non posso garantire, magari ne ha fatti solo venti.
Adesso mia mamma non si ricorda più le cose, ogni tanto si dimentica anche che sua mamma è morta 50 anni fa e qualche volta mi ha chiesto di telefonarle, non posso saperlo da lei. Anche io comincio a perdere un po’ la memoria, lo ammetto: tempo fa ho sotterrato in giardino i bulbi dei fiori, non so più dove li ho messi e adesso che stanno spuntando è tutta una sorpresa  e devo guardare su una app certe strane foglie comparse nel prato (a parte i tulipani!) per sapere se le avevo piantate io. Ma un bel po’ delle case di mia nonna me le ricordo perché ci ho vissuto per settimane, da bambina.
(Bada che niente dei fatti che ti sto per raccontare potrà essere convalidato, non c’è più nessuno a parte lo Zio Carluccio: vuoi chiedere a lui? Se fosse tutto vero sarebbe una testimonianza, ma metti in conto che potrebbe trattarsi di finzione letteraria.)

Nella casa di porta romana aveva un balcone dal quale si vedeva, quattro piani sotto, un giardinetto incuneato tra i palazzi. In questo giardinetto c’era l’erba, siepi fiorite e un’altalena, sull’altalena una bambina grande più o meno come me, sempre da sola. Passavo dei pomeriggi interi a guardare giù, il sole entrava dalla portafinestra e faceva ballare i bruscolini di polvere come coriandoli in miniatura, io cercavo di seguirli con gli occhi e nella noia languida del dopopranzo mi immaginavo di sentire suonare il campanello, di andare ad aprire la porta e di vedere controluce la sagoma della bambina che si stagliava nel bagliore del pianerottolo. Sognavo che mi prendeva per mano e mi portava giù sull’altalena. Mi spingi?
L’avrei spinta fin sulla luna! Ma non succedeva mai.
Una volta avevo fatto cadere giù dal balcone una pantofola, mia nonna mi aveva sgridato perché diceva che l’avevo fatto apposta ma sono sicura che si era trattato di un movimento maldestro, non l’avevo buttata giù io e comunque non era servito a niente perché l’aveva riportata su Luigino, il figlio della portinaia, un bambino che gli mancavano tutti i denti davanti.

La signora Verani, che abitava nello stesso pianerottolo di mia nonna, aveva una collana d’oro a forma di catena piatta su un collo grosso montato a sua volta su un petto ancora più grosso. Ogni cosa che facevano lei e mia nonna se lo dicevano, si guardavano a vicenda il modo in cui sbrigavano i mestieri di casa o da mangiare o le cose che avevano comprato.
La signora Verani sbucciava le carote col pelapatate, “ma così butta via tutte le vitamine!” Diceva mia nonna, che pure nella confidenza le dava del lei.
“Eh ma le vogliamo mangiare crude”, si giustificava l’altra. Mia nonna le prendeva la carota di mano e cominciava a grattarla col coltello, “vede? È così che si fa!”
La signora Verani allora non diceva niente.

A carnevale mia nonna si era messa in testa di vestirmi in maschera, è stata l’unica volta in vita mia. Non mi ha fatto lei il costume, eppure era capace e andavamo anche alla scuola per imparare a ricamare con la macchina da cucire. Quella volta aveva noleggiato un vestito da damina del settecento, con la parrucca bianca e il ventaglio, peccato che non trovo più le foto, col trasloco ho perso di vista una serie di cose e non mi ricordo più dove le ho messe.
Per farmi divertire aveva addobbato il tinello con le stelle filanti, era salita in piedi sulla sedia e le aveva attaccate al lampadario da una parte, e dall’altra ai chiodi dei quadri.
Con quel vestito lungo fino ai piedi mi aveva portata in tram all’Odeon dove c’erano tantissimi bambini vestiti in maschera, coriandoli e stelle filanti dappertutto che si scivolava camminando sul parquet. Per tenere larga la gonna, invece della crinolina c’era sotto un cerchio di ferro che ogni passo che facevo mi picchiava sul calcagno e mi aveva fatto venire una vescica, mi faceva male da piangere e le lacrime avevano sciolto la colla che mi teneva su il neo finto che mi aveva messo, un coriandolo nero che è raro e difficilissimo da trovare nel sacchettino, come un ago in un pagliaio.

La cosa più bella della casa di porta romana erano i giardinetti sui bastioni, li ho riconosciuti molti anni dopo passando in macchina. C’era una fontana con le piastrelline turchesi come una piscina e il bordo largo di marmo bianco, le panchine, l’erba, gli alberi e l’edera lungo il muro. Io e una bambina che avevo trovato lì appoggiavamo le nostre bambole sul bordo della fontana e poi dicevamo, guarda, si è fatta la pipì addosso, si è bagnata! E questo rendeva tutto più vero. Ci siamo andate poche volte, purtroppo, mia nonna non mi ha portato ai giardinetti nelle altre case dove ha abitato.

Di via Soperga mi ricordo il terrazzo in cemento con delle righe nere che d’estate diventavano molli, era così grande che si poteva andare avanti e indietro con il go kart a pedali che la nonna aveva vinto a una riffa insieme all’uovo di pasqua gigante. Quella casa aveva anche un corridoio lungo con in fondo una stanza che aveva la tappezzeria a righe e una scrivania di legno coi cassetti dove mio nonno lavorava di notte.
In via Soperga una volta ho lavato i piatti da sola per fare una sorpresa a mia nonna, era la prima volta in vita mia.

mia nonna ha abitato in via soperga

Nella foto si vede il terrazzo della casa di via Soperga, io con un costume che non era quello da damina del settecento e comunque non era nemmeno carnevale, a fianco a me mia nonna e, in fondo, una metà di mio fratello sul go kart

 

Nella casa in via Belgirate era morto mio nonno, ci ho dormito con la nonna per un certo periodo, prima che si trasferisse a casa nostra. Stava all’ottavo piano e l’ascensore era rotto, per non andare su a piedi si prendeva quello dell’altra scala, si saliva fino alla terrazza sul tetto e poi si scendeva dall’altra parte. Una notte, mentre rientravamo dopo cena, mi sono messa a camminare su un rialzo che correva lungo il tetto e mi sono trovata davanti, nel buio e inaspettato, un camino. Nello slancio della camminata ci ho picchiato contro e sono volata in avanti sbucciandomi le ginocchia e le palme delle mani. Che sgridata che mi aveva propinato mentre mi disinfettava le gambe sanguinanti, soprattutto non capiva per che stupida ragione, perché diamine, ma cosa mi era venuto in mente, “ma insomma, perché?”
Mah? Non sapevo rispondere.

Mia nonna ha abitato anche in via Meina, una volta al numero 5 e una volta al numero 8 e se contiamo che al 4 ha abitato con noi e al 6 hanno abitato i miei genitori poco dopo, possiamo dire che la mia famiglia, e soprattutto mia nonna, in qualche modo ha abitato a tutti i numeri di questa via, che è molto corta, va detto.

Quando abitava al 5 di via Meina sono rimasta più di un mese con lei e il nonno perché avevo avuto la scarlattina, che a quei tempi era una malattia grave, sono stata anche in ospedale. Ero in prima elementare e la nonna mi riportava sulla lavagnetta i disegni e le parole da copiare per tornare in pari, S come soldato, le lettere in corsivo, maiuscolo e minuscolo, proprio uguali a quelle della mia maestra.

La casa al numero 8 è stata l’ultima che ha abitato, me la ricordo affacciata al balcone del primo piano, aspettava in agguato che passassi di lì per chiamarmi con il fischio di famiglia, ogni scusa era buona per attirarmi su da lei: un vermuttino, un frappè, un caffè, a seconda dell’ora e del momento. Mi faceva salire anche se ero con quel mio ragazzo che non piaceva ai miei, faceva finta di non saperlo, disposta a tutto per mezzora di compagnia.
Almeno una volta alla settimana mi invitava a pranzo o a cena, e quando non potevo più dire di no mi chiedeva anche che cosa volevo mangiare: menù alla carta. Per me era lo stesso, in quell’età del rigoglio ormonale che mi importava di quello che avevo nel piatto? “Cotoletta!” dicevo, che era la prima cosa che mi veniva in mente. Mia nonna cucinava benissimo, non si correvano rischi: anche adesso che non abito più a Milano porto avanti la tradizione di famiglia e preparo certi piatti precisamente come li faceva lei, stando attenta ai dettagli e mentre cucino la penso e mi dico “se non è una piccola forma di immortalità questa, anche se circoscritta e temporanea, cosa lo è?”

 

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