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Accessibilità digitale cose che si fanno a monza e altri miracoli

Venerdì scorso c'è stato il convegno che ho contribuito a organizzare, era una iniziativa della Giornata Mondiale dell'accessibilità digitale, GAAD, Global Accessibility Awareness Day. Anche se sapevo molto bene di cosa avremmo parlato, dato che ho curato l'agenda insieme a Donato e conoscevo i contenuti degli interventi, anche questa volta ho trovato tutto molto emozionante. Ma non è di questo che parla questo post

Accessibilità digitale: cose che si fanno a Monza e altri miracoli.

Per una serie di libere associazioni sono finita su questo racconto che avevo riportato anni fa sul mio vecchio blog. Non è mio, è di Aimee Bender e sta dentro il romanzo L'inconfondibile tristezza della torta al limone, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, minimum fax. Non è nemmeno un racconto a ben vedere, è parte di un romanzo ma è una storia fatta e finita e parla di cosa comporta vedere o non vedere. Parla di accessibilità e di inclusione e di opportunità.

Questa storia mi preme per molti motivi, non solo perché è scritta bene. C'è la questione del vedere o non vedere, che per me è un tema cruciale. Poi nota come lei ha descritto bene questo padre, senza spiegare un bel niente si capisce subito che è un tipo testardo di quelli che non vogliono vedere, fa quasi tenerezza come lei se lo rivolta sul dito, lo fa su e non c'è niente da fare, lui è troppo rigido, è fatto così e non cambierà mai, non ci sono occhiali per questo tipo di cose. Ma i padri delle volte sono così, sembrano inopportuni visti da fuori ma non sono sempre cattivi, hanno spesso da qualche parte dimenticata, magari sepolta in fondo a decenni di vita tutta sbagliata e diversa da come l'avrebbero voluta, una intenzione d'amore, anche se non sembra oppure non si vede.

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Ehi, ho sentito una storia, dissi.
Mi guardò con aria attenta. Una storia?
Di un ragazzo, a scuola, dissi. Vuoi sentirla?
Magari, disse.
Mi lasciai andare sulla consistenza solida dello schienale del sedile.
C’è un ragazzino, cominciai. Nella mia classe di inglese? Che stava per venire bocciato, l’anno scorso. Mi sa che abita in uno di quei quartieri malmessi, dalle parti del Dodger Stadium, e non si rendeva conto che aveva bisogno degli occhiali, e vedeva tutto sfocato.
Scommetto che non riusciva a leggere, intervenne papà. Le sue mani si erano un po’ calmate con l’inizio del racconto, e aveva di nuovo messo fuori il braccio lungo la fiancata per risistemare lo specchietto di destra. Ci vedi così?
A posto, dissi. Vuoi che continui?
Vai, disse. Vai avanti.
Comunque, ripresi, sì. Non riusciva a leggere. Quello era il problema. I professori gli facevano i test, e lui non riusciva a leggere neanche una parola, e durante le lezioni di inglese non apriva bocca, e aveva preso brutti voti per anni e anni, e non riusciva nemmeno a capire come gli altri potessero svolgere questa attività magica e misteriosa chiamata lettura, e finalmente uno degli insegnanti ha detto che dovevano fargli una visita agli occhi, e l’hanno portato dall’oculista.
Papà scosse la testa. Era la prima cosa che avrebbero dovuto controllare, disse. ’Sto sistema scolastico del cavolo, continuò.
Io tolsi le chiavi dal blocchetto dell’avviamento.
Be’, dissi. Così hanno trovato che non ci vedeva quasi per niente, e gli hanno dato gli occhiali, e tutti gli insegnanti gli stavano attorno mentre li provava.
Era un ragazzo intelligente?, domandò papà.
Intelligente, confermai. Senza dubbio. Così si è infilato gli occhiali, prescrizione perfetta, giusto? Insomma se li è messi e tutto d’un tratto era in grado di leggere, e non solo, l’atto stesso del leggere gli è sembrato all’improvviso qualcosa di possibile, e non gli è sembrato più che il resto del mondo fosse anni luce avanti a lui, così irraggiungibile.
Una storia che rincuora, commentò papà, annuendo. Mi piace. A che ora comincia il nostro programma?
Tra dieci minuti, risposi. Attenzione, non è finita.
Perché no?, chiese papà, con la mano sulla maniglia della portiera. Mi piace il punto in cui è finita, disse. Finiamola qui.
Il ragazzo torna a casa, giusto?, continuai io. Con gli occhiali. E il suo nuovo libro di lettura. E sua mamma gli va incontro sulla porta. Lei sorride, perché la scuola le ha telefonato per darle la buona notizia. Ma lui vede che lei è stanchissima. Non l’ha vista per anni e anni, con chiarezza: anni! E lei è tremendamente spossata, ha le occhiaie e quando sorride sembra che uno dei denti sia un quadratino marrone. Non si possono permettere il dentista. Giusto? E la casa? Un disastro. Un lato sta cadendo a pezzi, e ci sono scarafaggi che scorrazzano sul pavimento e in una parete c’è un grosso buco, che lui pensava fosse un quadro.
La luce automatica del portico si spense. Il profilo di papà, sommerso dal buio.
Ti stai inventando tutto, vero, disse.
No, protestai.
Come si chiama il ragazzo?
John, risposi.
John come?
John Barbaducci, dissi, dopo un po’.
Papà tossicchiò. Barbaducci, ripeté. È il nome più inventato che abbia mai sentito. Abramo Lincoln, oppure perché ’sto tipo non lo chiami George Washington. Insomma, disse. Va bene. Va’ avanti. Il ragazzo detesta quello che vede.
Così calpesta i suoi occhiali, dissi.
Cristo!, strillò papà, battendo sul cruscotto. Lo sapevo che stava per succedere qualcosa del genere. Adesso mi fa schifo questa storia, disse. E così lui resta di nuovo indietro, giusto?
Non impara più a leggere, continuai. Ma riesce a cavarsela.
Si fa dichiarare semicieco e riceve un sussidio di invalidità.
Oh, insomma, questa è una storia orribile, disse papà, scuotendo la testa. Orribile. Aprì la portiera della macchina.
Scesi anch’io. Chiusi a chiave.
Sei stata brava con la freccia, disse papà. Ma non dimenticarti i retrovisori laterali.
A me era sembrata una bella storia, dissi.
È una storia tremenda, disse, dirigendosi alla porta. Gli viene riconosciuta l’invalidità e non è nemmeno un disabile! È una di quelle faccende che mandano ai pazzi gli avvocati. E pensava che il buco fosse un quadro?
Davanti alla porta si rovistò nelle tasche.
Ecco, dissi, passandogli il suo mazzo di chiavi.
Lui tossì di nuovo, coprendosi la bocca con la mano. Lo so che è una balla, disse, aprendo la porta ed entrando. Lo so che stai cercando di dirmi qualcosa, ma non ho idea di che cos’è. Ok? Io non so pensare in questo modo. Cosa stai cercando di dirmi?
Niente, risposi. Era solo un ragazzo alla mia scuola.
John come?
Ci guardammo in faccia, in corridoio. Papà incrociò le braccia.
John Barbelucci, risposi.
Con un grido di gioia batté la mano sul tavolino artigianale di pino dove di solito posavamo le chiavi, sistemato vicino all’ingresso, fatto da mamma il primo anno che andava alla falegnameria.
Vedi!, esclamò. Mi guardava trionfante. Hai detto Ducci, prima. Ne sono sicuro.
Lucci, dissi io.
Ducci.
Hai un registratore?, domandai.
Sono sicurissimo!, insistette. Chiudi la porta, ordinò.
Chiusi a chiave la porta alle nostre spalle.
Allora, tu sai leggere?, mi chiese, diretto alla stanza della tv. È di questo che stiamo parlando?
Io mi tolsi le scarpe scalciandole via, e papà appese la giacca sullo schienale di una sedia.
So leggere, risposi.

Erano le otto in punto. Entrambi lanciammo uno sguardo per controllare l’orologio. Mi versai un bicchiere di succo di frutta, e senza una parola prendemmo posizione ai due capi del divano e papà accese la tv sul nostro programma preferito, quello che parlava di medici, ed esultammo per il salvataggio della donna con un problema cardiaco, dagli occhi tanto grandi e amabili.

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[fine citazione]

(Aimee Bender, L'inconfondibile tristezza della torta al limone, traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan, minimum fax)

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#A11YDays Donato Matturro e Nicola Galgano agli accessibility days all'Istituto dei ciechi di Milano con l'intervento dal titolo Joomla! 4.1 - La nuova versione del CMS accessibile anche in fase di sviluppo
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