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Tutti i bambini giocavano in strada

Dopo pranzo mi sono fatta prestare il cane e sono andata a fare una passeggiata. La giornata era ancora abbastanza bella anche se a nord, verso viale Zara e piazzale Istria, il cielo ha preso un blu più scuro, come a minacciare un temporale.

Sono le due del pomeriggio e non c’è nessuno, tutte le strade intorno a casa mia sono silenziose, pochissimi pedoni e nessuna macchina. Viale Marche, via Cagliero, via Melchiorre Gioia vuote. Nemmeno con mezzo metro di neve c’era questo silenzio, solo un cane che abbaia lontano.

Ho sempre abitato qui, il quartiere è cambiato poco da quando ero bambina: ho visto costruire qualcuna di queste case ma la maggior parte era già qui tale e quale, come questa foto che potrebbe essere d’epoca, se non fosse per la marca delle auto parcheggiate.

Mio papà aveva una mille e tre bianca e la parcheggiava davanti a casa. Forse ne ho già parlato in qualche vecchio raccontino della domenica? Noi andavamo giù a giocare e la strada era quasi vuota come oggi.

Tutti i bambini giocavano in strada

Eravamo io, Ombretta, a volte la Cocca, Flora, Antonella e altre due o tre. Giocavamo a rialzo e alle penitenze ma soprattutto a un gioco che non mi ricordo come si chiama ma che prevedeva la scelta di un elemento all’interno di una categoria, per esempio se ti dicevano automobili, allora bisognava rispondere Scevrolettimpala, o almeno così si raccomandava Antonella per fare in modo che fossimo sotto insieme io e lei, se invece dicevano fiori bisognava rispondere giglio tigrato e così via. Antonella, nome di fantasia come tutti gli altri qui, o quasi, era alta come me ma più magra e aveva la coda di cavallo, d’estate portava dei sandali d’oro che le ho sempre invidiato. Forse era più grande di me, di certo un bel po’ più sveglia, anche se non ci voleva molto. Quando otteneva che stessimo sotto insieme mi metteva un braccio intorno alle spalle e mi trascinava più in là per confabulare sulla strategia senza farci sentire dalle altre. Se davo retta a lei si vinceva sempre, l’ho detto che un tipo sveglio.

Dire fare baciare lettera e testamento era l’epilogo, non mi ricordo altro perché sul più bello arrivavano i maschi con le cerbottane e noi si doveva scappare.

I maschi in via Meina erano una vera piaga, a carnevale avevano i manganelli e te li volevano dare in testa, d’estate avevano le pistole ad acqua e ti volevano bagnare, venivano con le cerbottane e ti soffiavano addosso i bussolotti con lo spillo, se giocavi a rialzo ti si mettevano davanti e non ti facevano scendere, scoppiavano le miccette e se ti spaventavi ti ridevano dietro. Mio fratello era troppo piccolo e non faceva parte dei maschi ma Mauro il mio vicino sì, oltre che Igor e altri tre o quattro che stavano in via Cagliero, pure uno di via Ressi, Davide, biondo e bellissimo, avrei voluto che non fosse dei maschi ma purtroppo lo era. I maschi, tra l’altro, avevano le unghie nere e le dita sporche di inchiostro.

La millettre bianca di mio padre era parcheggiata davanti a casa e non era quasi mai chiusa a chiave. C’era tutto il posto che si voleva nella via, non tutti avevano la macchina. Così quando arrivavano i maschi noi salivamo in macchina e tiravamo giù il pirulino, le più spavalde facevano le boccacce ai bussolotti che si andavano a schiacciare contro i finestrini e all’acqua delle pistole sul parabrezza, le altre si nascondevano sotto i sedili ma tutte avevamo paura dei manganelli che picchiavano forte sul tettuccio.  E meno male che non era una spider, che in altre situazioni mi sarebbe piaciuta ma quella volta no.

La millettre aveva i sedili di velluto marrone e se per caso mio padre doveva uscire proprio mentre eravamo dentro noi non ci diceva niente, noi scendevamo, tanto i maschi erano scappati.

Bisogna dire che i maschi attaccavano solo se erano tutti insieme, se per caso ne incontravi uno alla volta di solito non ti faceva niente. Solo una volta, ma era passato molto tempo e andavo già alle medie, avevo incontrato Davide a carnevale e mi volva dare una manganellata. Io stavo andando a una festa, avevo una camicetta gialla con lo jabot davanti che era stata di mia mamma e una gonna scozzese a pieghe con lo spillone, non volevo sgualcirmi ma nemmeno potevo subire l’onta.  Lui era in bicicletta e cercava di colpirmi senza scendere, per questo era impacciato e riuscivo a evitarlo, lo scartavo di lato e non lo lasciavo avvicinare. Avevo una valigetta con dentro almeno una ventina di dischi da portare alla festa e la usavo come uno scudo per difendermi ma a un certo punto ho perso la pazienza e gliel’ho data in testa. A momenti cadeva dalla bici ma la valigetta si è aperta, spargendo tutti i dischi sul marciapiede. Dal nervoso mi veniva da piangere, guarda cos’hai fatto gli dicevo con lo strozzo in gola. Lui avevo mollato giù la bici e mi aiutava a tirarli su, dai, lasciamene dare almeno una, bisbigliava tutto rosso in faccia, come se non dovesse farsi sentire. Mi implorava, ma ti pare? certe cose non si possono chiedere nemmeno per piacere.

Niente, mica gliel’ho data vinta, mi sa che ormai non eravamo più tanto bambini.

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